Africa saccheggiata: le multinazionali, la povertà e la fuga verso l’ignoto

Africa occupata

Ogni barcone che arriva porta con sé una domanda: “Perché la mia terra è ricca, ma io sono povero?”

L’Africa è ricca. Ricca di terre, di minerali, di energia, di cultura, di gioventù. Ma chi la guarda da fuori, la vede povera. Perché la sua ricchezza non le appartiene. Perché la sua ricchezza è estratta, esportata, espropriata.

Le multinazionali europee e mondiali hanno fatto dell’Africa un giacimento. Non un continente, ma un deposito. Non una patria, ma una miniera.

Dove si insedia il dominio

In Congo, le terre sono ricche di coltan, cobalto e rame. Minerali essenziali per smartphone, batterie, auto elettriche. Ma i congolesi vivono in baracche, scavano a mani nude, muoiono sotto le frane.

In Nigeria, le multinazionali petrolifere estraggono greggio dal Delta del Niger. Le acque sono avvelenate, i pesci scomparsi, le terre rese sterili. La popolazione vive tra incendi, malattie e repressione.

In Angola, le miniere di diamanti brillano per chi le compra, non per chi le estrae. In Sudafrica, le multinazionali del platino e dell’oro dominano intere province. In Burkina Faso, Mali e Guinea, l’estrazione dell’oro è gestita da società estere, mentre i villaggi restano senz’acqua.

In Senegal, le sabbie fosfatiche sono esportate per fertilizzare i campi europei, mentre i contadini locali lottano contro la desertificazione. In Etiopia, le terre agricole sono affittate a società straniere per coltivazioni intensive, mentre la popolazione soffre la fame.

In Mozambico, le multinazionali del gas liquido costruiscono impianti miliardari, ma le comunità locali vengono sgomberate e militarizzate.

Chi si arricchisce, chi resta povero

Ogni anno, miliardi di dollari lasciano l’Africa. Profitti, dividendi, royalties, evasione fiscale. Denaro che non costruisce scuole, non finanzia ospedali, non crea lavoro.

Le multinazionali si arricchiscono. I governi corrotti si arricchiscono. Ma la popolazione resta povera.

Non per mancanza di risorse. Ma per mancanza di giustizia.

Lo sfruttamento non è sviluppo

Si parla di investimenti, di cooperazione, di crescita. Ma lo sfruttamento non è sviluppo. È espropriazione. È dominio. È colonialismo travestito da business.

Le multinazionali non portano libertà. Portano recinzioni, contratti opachi, eserciti privati. Portano infrastrutture che servono solo all’estrazione, non alla vita.

L’immigrazione come fuga dalla rapina

Quando un giovane africano attraversa il deserto, il mare, i confini, non fugge dalla sua terra. Fugge da ciò che è stato fatto alla sua terra.

Fugge da un sistema che lo ha reso invisibile. Che lo ha privato della dignità, del futuro, della scelta.

L’immigrazione clandestina non è un crimine. È una conseguenza. È una risposta disperata a un furto sistemico.

Ogni barcone che arriva in Europa porta con sé una domanda: “Perché la mia terra è ricca, ma io sono povero?”

La resistenza che nasce dal suolo

Ma l’Africa non è solo vittima. È anche resistenza.

Contadini che difendono le terre comuni. Minatori che scioperano contro le condizioni disumane. Donne che denunciano le violenze ambientali. Giovani che scrivono, che cantano, che organizzano.

Ogni ricordo che resiste, ogni voce che accusa, ogni mano che si tende è già un colpo inferto al potere che opprime.

L’Africa non è povera. È impoverita. E chi la sfrutta, chi la svuota, chi la costringe alla fuga, non può parlare di civiltà.

Perché la civiltà non si misura in profitti, ma in giustizia. E ogni volta che un popolo saccheggiato alza la voce, ogni volta che un migrante attraversa il confine, ogni volta che una comunità difende la propria terra, quella voce — anche se scomoda — è già resistenza.