Carceri israeliane e ungheresi: dove la dignità viene sospesa
Ogni detenuto che non si piega è già una crepa nel dominio.
La prigione non è solo un luogo. È un confine. Tra ciò che lo Stato tollera e ciò che vuole cancellare. Tra chi ha voce e chi viene ridotto al silenzio.
In Israele e in Ungheria, la prigione non è solo una misura penale. È uno strumento politico. È una forma di controllo. È una dichiarazione: “Tu non conti.”
Israele: la prigione come arma contro l’identità palestinese
Nelle carceri israeliane, migliaia di palestinesi sono detenuti senza processo, senza accusa formale, senza fine certa. La “detenzione amministrativa” è una pratica che sospende il diritto, che congela la persona, che trasforma la giustizia in dominio.
Molti sono giovani, studenti, attivisti. Molti sono arrestati per aver scritto, per aver manifestato, per aver resistito. Le condizioni sono dure: isolamento, privazione di cure, torture psicologiche, negazione delle visite familiari.
La prigione diventa un laboratorio di annientamento. Non si punisce un reato: si punisce un’identità. Si punisce l’essere palestinese, l’essere libero, l’essere umano.
Ungheria: la prigione come specchio del potere sovranista
Nel cuore dell’Europa, le carceri ungheresi raccontano un’altra storia. Una storia di degrado, di umiliazione, di regressione. Una storia in cui il potere si mostra non solo nei tribunali, ma nelle catene.
Detenuti ammanettati, processi in cui l’imputato è trattato come colpevole prima ancora di parlare. Celle sovraffollate, infestazioni, mancanza di igiene. Un sistema che non rieduca, non protegge, non ascolta.
Il governo di Orban ha trasformato la giustizia in spettacolo. La prigione diventa teatro di punizione esemplare. Chi dissente, chi migra, chi lotta viene mostrato in catene — non per sicurezza, ma per intimidazione.
Due modelli, una stessa ferita
Israele e Ungheria non sono uguali. Ma le loro carceri parlano la stessa lingua: quella della sospensione della dignità. In entrambi i casi, la prigione non è solo uno spazio fisico. È un messaggio: “Tu sei fuori dalla legge, fuori dalla società, fuori dalla storia.”
Eppure, in quelle celle, la resistenza continua. Con uno sguardo, con una parola, con un silenzio. Ogni detenuto che non si piega è già una crepa nel dominio.
La giustizia non è vendetta. La prigione non è tortura. La dignità non è negoziabile. In ogni corpo incatenato per intimidire, in ogni voce spenta per paura, c’è ancora una scintilla che dice: “Io esisto.”
0 Commenti