Quando Totò Smascherò il "Capo" a Colpi di Bombetta

 

Totò

 

Roma, Anno XV dell'Era Totoniana (o giù di lì)

Nella seriosa e marziale atmosfera dell'Italia Anni Trenta, dove persino i canarini fischiavano in uniforme, un unico uomo osava sfidare la solenne gravità del Potere: Sua Maestà Antonio De Curtis, in arte Totò. Non con proclami o manifesti, sia mai! Ma con il più sovversivo degli strumenti: la risata.

L'occasione perfetta fu il film Fermo con le mani, un'innocua farsa in cui Totò, nei panni del 'barone' squattrinato, sferrò il suo attacco più sottile e micidiale, trasformando l'austerità del Regime in un balletto clownesco.

Il Palcoscenico Minato della Satira



E qui, amici lettori (e attenti censori che forse ci leggete dall'aldilà), bisogna dirlo con la massima serietà: scherzare sul Duce era pericoloso quanto tentare di insegnare l'educazione stradale a un tram. Le battute, anche le più innocue, potevano costare care, carissime. Era l'epoca della Censura con la 'C' maiuscola, una divinità in doppiopetto che sedeva in ogni sala di montaggio, armata di forbici e di un'assoluta mancanza di senso dell'umorismo.

Per ogni "Ah, ah!" strappato al pubblico, un artista doveva temere un "Ehi, ehi!" dalle stanze del Potere. Il cinema era sorvegliato speciale: ogni scena, ogni parola, ogni sguardo storto doveva essere approvato per non incappare nelle furie del Ministero della Cultura Popolare (MinCulPop), che di popolare aveva solo il nome e di cultura solo l'ossessione per l'ordine.

Totò, quindi, non era un rivoluzionario con la pistola, ma un equilibrista sul filo spinato. La sua genialità risiedeva proprio in questa acrobazia: fare satira senza mai farla davvero.

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Totò, il sublime affamatore di poltrone, aveva una capacità unica: quella di prendere la liturgia del Potere e ridurla a un mucchietto di stracci ridicoli. Immaginate la scena, se non la si è vista, si può solo evocarla: il Duce, tutto muscoli, mascella e passo romano, trasformato, nell'immaginario collettivo creato da Totò, in... un Pinocchio ingessato.

La sua satira non era un attacco frontale, ma un veleno iniettato a piccole dosi nella vena della quotidianità.

    Il Discorso: Quando Totò farfugliava il suo celebre «Siamo uomini o caporali?», non si rivolgeva solo a un'umanità affamata. Echeggiava il tono roboante e altisonante dei discorsi ufficiali, svuotandoli di ogni enfasi e riempiendoli con la fame atavica e verace di un popolo. Il Duce urlava "Vincere!"; Totò rispondeva: "Ma fatemi la cortesia!".

    La Divisa: Il suo modo di portare abiti importanti – troppo stretti, troppo larghi, sempre sbilenchi – era la perfetta parodia dell'ossessione per le uniformi e le decorazioni. Ogni suo cappello a cilindro sfondato valeva quanto cento 'camicie nere' inamidate, dimostrando che sotto il gagliardetto, la realtà era sempre la stessa: quella di dover 'campare' tra una sventura e l'altra.

    La Postura: Mentre il Duce si imponeva con la posa del condottiero, Totò si sfaldava sulla scena. Le sue gambe incerte, i suoi movimenti guizzanti, erano l'antitesi perfetta della rigidità fascista. Ogni volta che faceva un inchino storto o allungava la mano per un saluto che diventava una supplica, prendeva a schiaffi, con la grazia di un guanto di velluto, il dogmatismo imposto.

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Il vero capolavoro di Totò, quello che gli permise di sopravvivere incolume a una censura che non perdonava, fu la sua innocenza satirica. Non attaccava l'idea, attaccava l'aria che si respirava.

    Si racconta che un gerarca, dopo aver visto una delle sue farse, avesse commentato indispettito: «Ma questo De Curtis prende in giro il Capo!» E Totò, con la sua inimitabile faccia da schiaffi, avrebbe ribattuto: «Ma figurati, Eccellenza! Io sono l'onestà fatta persona. La mia è solo una satira... del mal di pancia! Se poi il Duce ha anche lui un po' di coliche, beh, la satira è universale, no?»

Così, l'attore napoletano si proteggeva dietro la maschera della follia inoffensiva. Rendeva la sua satira così grottesca e al limite da poter sempre sostenere che stesse solo imitando la sfortuna, l'avidità o la stupidità universale, mai il sacro e intoccabile Capo. La sua comicità era una crepa nel marmo del Potere, piccola ma sufficiente a far passare un refolo d'aria fresca in un'epoca soffocante.

A conti fatti, Totò, senza mai pronunciare una parola contro, fece qualcosa di molto peggio per la dittatura: la rese ridicola. E una cosa ridicola, si sa, non può pretendere di essere eterna. L'unica 'marcia' che contava davvero, in quel cinema buio, era la marcia della risata. E quella, con la sua inafferrabile leggerezza, superò persino la Censura.

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